L’Isabetta da Messina
Questa poesia è stata tratta dal Decamerone di Giovanni Boccaccio e l’autore è Italo Rappazzo
Messer Boccaccio mi conceda licenza,
se della sua trista istoria fo menzione:
ad egli sia l’omaggio, a me clemenza,
la pazienza del lettor, mio guiderdone.
In quello tempo erano in Messina,
tre giovani fratelli mercatanti,
che di danari ne possedean ben tanti,
con una sorella ancora pulzellina.
Giovane assai bella e costumata,
quale fosse cagion che si accampava,
finora non l’aveano maritata.
Nella magione pur con loro stava,
un giovanetto assai leggiadro e bello,
che dei lor fatti aveva buon cervello:
col nome di Lorenzo si nomava.
Più fiate l’Isabetta lo guatava:
che se ne fece ragione dolcemente:
infino lei comprese che l’amava.
Di che Lorenzo s’accorse similmente,
li altri suoi amori ei abbandonò,
e l’animo a porre in essa incominciò.
Si piacquero così tanto igualmente,
che un grande tempo non stette a passare:
fecer quell’opra a loro bene accetta,
ma non la seppero di nascosto fare.
Quando una notte andando l’Isabetta
dove Lorenzo aveva il suo ricetto,
il maggior dei fratelli ebbe un sospetto;
li vide, ma ad agir non ebbe fretta.
Tutto lui raccontò, giorno venuto,
agli altri frati e assieme a loro ei disse
d’infignersi di non aver nulla veduto,
infino a tanto che tempo venisse,
nel quale senza sconcio e senza danno,
si potessero torre dall’affanno
di tal vergogna, avanti che più isse.
Un dì, in tal disposizione dimorando,
fuor di città Lorenzo fu menato,
con diletto ridendo e poi cianciando.
Giunti in un loco solo ed appartato,
l’uccisono, sotterrandolo in guisa
che niuna persona venne visa.
Tornatisi a Messina fu annunziato,
per lor bisogne, d’averlo fuor mandato,
e in altro luogo stesse dimorando,
che mandarlo di torno egli era usato.
L’Isabetta, Lorenzo non tornando,
ai tre fratei (1) sovente dimandava,
ma niuno risposta a lei le dava;
per che la giovane trista e dolorando,
senza più domandarne se ne stava,
e nella notte con voce disperata,
che ritornasse sempre lo pregava.
Non passò tempo che in una nottata
a costei, che molto lagrimava,
Lorenzo, che infine non tornava,
essendosi piagnendo addormentata,
l’apparve in sonno tutto rabbuffato,
co’panni fracidi, stracciati da penare,
e parve che le avesse sì parlato:
“O Lisabetta, non fai altro che chiamare,
e t’attristi della mia lunga dimora,
con le tue lagrime m’accusi di star fora,
ma sappi che non posso più tornare.
M’uccisono il dì in cui il volto mio t’apparve”
e segnatole il luogo ov’era lì a giacere,
disse che più non l’aspettasse, e poi disparve.
La giovane, destatasi, pianse nel tacere;
poi a mattina, non avendo ardire
di alcuna cosa ai suoi fratelli dire,
volle andare in quel luogo per vedere
se fosse ver quel che nel sonno le pareva.
Ebbe licenza d’uscire, senza motto,
con una fante, che i fatti suoi sapeva.
Nel luogo, tolse via le foglie, e sotto
dove era men dura la terra, ivi scavò;
dopo non guari (3) scavato, ella trovò
il suo misero amante, non corrotto.
Quella salma, avrebbe via portata,
ma tale cosa non potea esser compiuta:
con un coltello la testa fu staccata.
Senza che mai fu da alcun veduta,
quella in un asciugatoio inviluppata,
dopo che terra sul busto fu gittata,
a casa sua tornò standosi muta.
Con questa testa sola si inserrò,
e sopra d’essa amaramente piagneva,
tanto che tutta di pianto la lavò.
Un testo (3) molto grande indi prendeva,
e lì involta da un bel drappo la posò,
e poi, messavi su la terra, vi piantò
del basilico salernetano che lei aveva.
Quivi, veniva sempre a vagheggiare,
e il basilico bello ed odorante era
per questo suo sovente lagrimare.
Servando a lungo lei questa maniera,
più volte da’ vicini fu notata,
che dissero: “ Noi l’avemo ben spiata:
Ella, su quello piagne mane e sera.”
Il che i fratelli udendo e sincerando
rubarono via il testo che lei amava,
avendola ripresa e non giovando.
Non ritrovandolo, sovente ricercava
con grande istanza, ma niun glielo tornò,
per grande duolo allora s’infermò:
né altro che il suo testo dimandava.
I tre si maravigliaron del suo fare,
e ricercaron qualcosa da scoprire:
tolta la terra, la testa fu a spuntare.
E sotterrata quella senza dire
da Messina partiron per via mare,
come s’abbandonassero ogni affare:
per sempre a Napoli se ne dovetter’ire.
La giovane, non ristando che dolore,
addimandando tutta sconsolata
dell’amor suo, morì di crepacuore.
Non passò tempo, che manifestata
la triste istoria, fece suggestione:
fu alcuno che compose la canzone,
la qual tutt’oggi viene pur cantata.
Qual esso fu lo malo cristiano,
che mi furò la grasta. etc (1)Fratei: fratelli. (2) Guari: molto. (3) Testo: Vaso
Italo Rappazzo
se della sua trista istoria fo menzione:
ad egli sia l’omaggio, a me clemenza,
la pazienza del lettor, mio guiderdone.
In quello tempo erano in Messina,
tre giovani fratelli mercatanti,
che di danari ne possedean ben tanti,
con una sorella ancora pulzellina.
Giovane assai bella e costumata,
quale fosse cagion che si accampava,
finora non l’aveano maritata.
Nella magione pur con loro stava,
un giovanetto assai leggiadro e bello,
che dei lor fatti aveva buon cervello:
col nome di Lorenzo si nomava.
Più fiate l’Isabetta lo guatava:
che se ne fece ragione dolcemente:
infino lei comprese che l’amava.
Di che Lorenzo s’accorse similmente,
li altri suoi amori ei abbandonò,
e l’animo a porre in essa incominciò.
Si piacquero così tanto igualmente,
che un grande tempo non stette a passare:
fecer quell’opra a loro bene accetta,
ma non la seppero di nascosto fare.
Quando una notte andando l’Isabetta
dove Lorenzo aveva il suo ricetto,
il maggior dei fratelli ebbe un sospetto;
li vide, ma ad agir non ebbe fretta.
Tutto lui raccontò, giorno venuto,
agli altri frati e assieme a loro ei disse
d’infignersi di non aver nulla veduto,
infino a tanto che tempo venisse,
nel quale senza sconcio e senza danno,
si potessero torre dall’affanno
di tal vergogna, avanti che più isse.
Un dì, in tal disposizione dimorando,
fuor di città Lorenzo fu menato,
con diletto ridendo e poi cianciando.
Giunti in un loco solo ed appartato,
l’uccisono, sotterrandolo in guisa
che niuna persona venne visa.
Tornatisi a Messina fu annunziato,
per lor bisogne, d’averlo fuor mandato,
e in altro luogo stesse dimorando,
che mandarlo di torno egli era usato.
L’Isabetta, Lorenzo non tornando,
ai tre fratei (1) sovente dimandava,
ma niuno risposta a lei le dava;
per che la giovane trista e dolorando,
senza più domandarne se ne stava,
e nella notte con voce disperata,
che ritornasse sempre lo pregava.
Non passò tempo che in una nottata
a costei, che molto lagrimava,
Lorenzo, che infine non tornava,
essendosi piagnendo addormentata,
l’apparve in sonno tutto rabbuffato,
co’panni fracidi, stracciati da penare,
e parve che le avesse sì parlato:
“O Lisabetta, non fai altro che chiamare,
e t’attristi della mia lunga dimora,
con le tue lagrime m’accusi di star fora,
ma sappi che non posso più tornare.
M’uccisono il dì in cui il volto mio t’apparve”
e segnatole il luogo ov’era lì a giacere,
disse che più non l’aspettasse, e poi disparve.
La giovane, destatasi, pianse nel tacere;
poi a mattina, non avendo ardire
di alcuna cosa ai suoi fratelli dire,
volle andare in quel luogo per vedere
se fosse ver quel che nel sonno le pareva.
Ebbe licenza d’uscire, senza motto,
con una fante, che i fatti suoi sapeva.
Nel luogo, tolse via le foglie, e sotto
dove era men dura la terra, ivi scavò;
dopo non guari (3) scavato, ella trovò
il suo misero amante, non corrotto.
Quella salma, avrebbe via portata,
ma tale cosa non potea esser compiuta:
con un coltello la testa fu staccata.
Senza che mai fu da alcun veduta,
quella in un asciugatoio inviluppata,
dopo che terra sul busto fu gittata,
a casa sua tornò standosi muta.
Con questa testa sola si inserrò,
e sopra d’essa amaramente piagneva,
tanto che tutta di pianto la lavò.
Un testo (3) molto grande indi prendeva,
e lì involta da un bel drappo la posò,
e poi, messavi su la terra, vi piantò
del basilico salernetano che lei aveva.
Quivi, veniva sempre a vagheggiare,
e il basilico bello ed odorante era
per questo suo sovente lagrimare.
Servando a lungo lei questa maniera,
più volte da’ vicini fu notata,
che dissero: “ Noi l’avemo ben spiata:
Ella, su quello piagne mane e sera.”
Il che i fratelli udendo e sincerando
rubarono via il testo che lei amava,
avendola ripresa e non giovando.
Non ritrovandolo, sovente ricercava
con grande istanza, ma niun glielo tornò,
per grande duolo allora s’infermò:
né altro che il suo testo dimandava.
I tre si maravigliaron del suo fare,
e ricercaron qualcosa da scoprire:
tolta la terra, la testa fu a spuntare.
E sotterrata quella senza dire
da Messina partiron per via mare,
come s’abbandonassero ogni affare:
per sempre a Napoli se ne dovetter’ire.
La giovane, non ristando che dolore,
addimandando tutta sconsolata
dell’amor suo, morì di crepacuore.
Non passò tempo, che manifestata
la triste istoria, fece suggestione:
fu alcuno che compose la canzone,
la qual tutt’oggi viene pur cantata.
Qual esso fu lo malo cristiano,
che mi furò la grasta. etc (1)Fratei: fratelli. (2) Guari: molto. (3) Testo: Vaso
Italo Rappazzo